Ginevra e il suo viaggio interiore
Si era chiesta come mai lui fosse lì da solo.
Nel carrello c’erano piatti, bicchieri e posate di plastica arancioni, tovaglia e tovaglioli di carta avevano l’immagine di un paperino arrabbiato e grintoso. Due bottiglie di vino bianco, sacchetti di patatine e salatini completavano la sua spesa.
Lei aveva pensato che lui andasse a una festa di addio al nubilato, chissà poi perché!
Sentiva il suo sguardo su di sé e ne era lusingata, avvertiva la necessità di ricambiare il suo interesse, voleva tenere vivo quel filo invisibile che passava tra loro.
Per fatalità o per uno scherzo del destino, le loro macchine erano parcheggiate l’una accanto all’altra e Marco approfittò dell’occasione e le chiese: «Per favore, saprebbe dirmi dove si trova la via Imbonati? Devo andare alla festa di compleanno del nipotino di un collega, ma, da qui, non riesco più a orientarmi. Sono arrivato in città da un mese e non conosco che la via del mio ufficio e quella di casa mia!»
Ginevra gli diede le indicazioni, aggiungendo: « Io abito in quella via, se vuole, può seguirmi, così non potrà sbagliare!»
«La ringrazio molto…posso chiedere il suo nome?» disse lui.
«Mi chiamo Ginevra»
«Io Marco. Grazie ancora e arrivederci!»
Salita in macchina, Ginevra pensò a quante informazioni lui le aveva dato con quella sua domanda. Lei però, che non aveva chiesto niente, ne era rimasta sorpresa. Intuì che lui si sentiva solo e lei, forse, l’occasione per conoscere qualcuno.
Arrivati in via Imbonati, lei si fermò all’inizio della via e lui proseguì lungo la strada.
Dopo qualche giorno, incontrò in ascensore il suo amico Giorgio che abitava nel suo stesso palazzo, lui le disse: «Sabato, al compleanno di mio nipote, il mio collega Marco mi ha detto che vi siete incontrati al supermercato e che tu gli hai fatto strada.»
Ginevra rispose : «Sì, è stata una fatalità che ci incontrassimo e che avessimo la stessa destinazione!»
«Lui mi ha chiesto se è possibile uscire per una cena noi quattro. Sai, mia moglie esce poco e questa può essere una buona occasione».
«Va bene, decidete voi dove e quando e poi fammelo sapere. Io sono arrivata. Ciao e a presto.»
Giorgio riteneva Marco una persona affidabile, che si era integrato con i colleghi senza arroganza,nonostante fosse il loro direttore.
Dopo la cena ci furono altri incontri. Marco e Ginevra si erano piaciuti e innamorati all’istante. Dopo qualche mese, erano addirittura andati a vivere insieme.
Si erano divertiti insieme, lei gli aveva fatto conoscere la città: avevano visto mostre e musei, perché entrambi erano appassionati di arte. Avevano riso per delle sciocchezze e si erano commossi al matrimonio di un amico.
I loro viaggi erano stati memorabili: come la crociera sul Nilo, in Egitto, era quanto di più bello lei avesse mai visto; le era rimasto nel cuore come qualcosa di indimenticabile.
Per due anni era stata felice come non credeva di poter essere, non le sembrava vero di avere accanto un uomo che cercava di darle tutto quello che desiderava.
Credere che tutto questo sarebbe durato “per sempre” era stato il suo più grande errore, ed era andata incontro a un triste disincanto.
Marco, divenne sfuggente, lontano. Niente più serate al lume di candela, la notte iniziava e finiva con lei che si girava e rigirava nel letto, ascoltando il suo respiro e assorbendo la sua indifferenza.
Quando lui le aveva detto di aver conosciuto un’altra donna che lo irretiva con la sua femminilità, Ginevra aveva capito che la bella favola era finita senza il “lieto fine”.
Lei non voleva essere la riserva di nessuno, non avrebbe accettato di essere messa da parte così, senza una ragione più profonda che il richiamo di un’altra donna che vinceva su di lei con il suo sex appeal.
Si rifiutava di credere che quello che aveva condiviso con Marco fosse soltanto un bel salto tra le lenzuola!
La realtà, comunque, era questa: doveva dimenticare Marco e riprendere in mano la sua vita senza di lui.
Ginevra passava da una stanza all’altra senza sapere cosa fare o cosa cercare.
Aveva la sensazione di dimenticare qualcosa, ma non riusciva proprio a far funzionare il cervello.
Impacchettare le cose che voleva portare con sé era stata un’azione semplice: questo lo voglio, quest’altro posso lasciarlo qui, queste cose potrebbero servire a che ne ha bisogno. Fin qui, tutto sistemato: scatoloni ben chiusi, ognuno con la sua etichetta per riconoscerli, divisi in vari angoli della casa e lasciati lì, ad aspettare la loro destinazione.
Le valigie erano già pronte e lasciate aperte per sistemare gli ultimi capi, quelli più delicati, nella speranza di sciuparli il meno possibile. Forse, anche per poterle disfare e ritornare alla sua vita di sempre.
Il computer era sulla scrivania, ancora acceso, messo in carica per poterlo usare in qualsiasi momento di quel viaggio che stava intraprendendo, con la speranza di poter leggere in una e-mail quelle frasi che l’avrebbero fermata e invitata a desistere da questa fuga. Perché lei, ora se ne rendeva conto, stava rinunciando alla vita vissuta, e sprecata, ad amare un uomo che non aveva fatto niente per fermarla e dare un senso a quel rapporto che era finito così, senza la possibilità di ricucire lo strappo tra loro.
Desiderava ardentemente poter tornare indietro, ma il tempo passava, il baratro tra loro diventava sempre più profondo.
Ora doveva mettere in ordine i ricordi, nasconderli in scatole ben distinte, riporli nel punto più lontano della mente, ma questa non era un’azione semplice come riporre le cose materiali, era la sconfitta che incombeva dolorosamente nella sua vita.
Avrebbe cambiato casa, cambiato vita, città e tutto era racchiuso in quel viaggio che avrebbe affrontato con l’incognita dell’avvenire .
Il tempo per aspettare era finito: chiuse le valigie e il cuore, ora non poteva più tornare indietro.
La chiave che bruciava nelle mani, le servì per chiudere la porta della vecchia vita.
Adesso, libera dall’infelicità che l’aveva avvolta nella nebbia della disperazione, correva incontro a un treno che l’avrebbe condotta verso un nuovo futuro !
La strega Melusina
Melusina era intenta a preparare la
cena, un’antica zuppa di Santa Ildegarda. Di tanto in tanto ravvivava il fuoco
con l’attizzatoio e scostava le tendine per sbirciare se Antonio fosse sulla
via del ritorno.L’ampia gonna frusciava a ogni singolo movimento, i capelli ramati erano raccolti in una treccia.
Fuori era buio, la neve cadeva incessantemente.
Il richiamo di una civetta annunciò l’arrivo del giovane.
Fradicio e intirizzito spalancò la porta e disse:<< Melusina, l’ho trovato!>>
A quelle parole la donna strabuzzò gli occhi: << Non è possibile! >>
Antonio, stremato, cadde sulle ginocchia. << Esiste! >>
Melusina lo aiutò ad alzarsi invitandolo amorevolmente a togliersi il mantello: << Siedi, racconta>>.
Antonio era raggiante.<< Il passaggio segreto esiste! >>
La tavola era già apparecchiata e nell’aria aleggiava il profumo di farro. Melusina versò un bicchiere di vino rosso rubino, lo porse ad Antonio: << Bevi, la cena è quasi pronta>>.
Antonio trangugiò la bevanda dalla consistenza corposa.<< Ci sono riuscito! Finalmente ce ne andremo da questo posto! >>
Melusina lo incalzò: << Dov’è? >>
Antonio si asciugò la bocca con il dorso della mano.<< Ci si deve immergere nel lago di Onif e dopo aver nuotato per due giorni e due notti nelle sue profondità, si raggiunge una botola! >>
Melusina giocherellava con il bicchiere.<< Una botola? >>
Antonio gesticolava e addentava il pane a grandi morsi.<< Si, una botola con l’impugnatura di brillanti, smeraldi e oro! >>
La donna si alzò, andò ad abbassare il fuoco volgendogli le spalle.<< Come hai fatto ad oltrepassare il ponte invisibile? >>
Antonio era elettrizzato.<< Ho fatto finta che non fosse invisibile. L’ho visualizzato nella mia mente e attraversato passo dopo passo! >>
A quelle parole Melusina sogghignò beffarda.<< Grazie, sei stato di grande aiuto! >>
Antonio non capì.<< Che vuoi dire? >>
Melusina gli si avvicinò e guardandolo dritto negli occhi disse: << Povero sciocco, credevi veramente che mi fossi innamorata di te? >>
Antonio si alzò di scatto, fece cadere la sedia.<< Maledetta! Strega! Ti sei servita di
me! >>
La donna rise sguaiatamente.<< Non avevo altra scelta! Sono stanca di essere prigioniera in questo quadro! >>
Antonio, incredulo, iniziò a tossire convulsamente.<< Come hai potuto? Dovevamo andarcene insieme!! >>
Melusina sferrò un pugno sul tavolo intagliato.<< Solo uno di noi si potrà salvare e di certo quello non sarai tu! >>
La strega invocò la furia dei venti e il potere delle bacche di solano nero che aveva sciolto nel vino. << Veloce devo andare, in gatto mi voglio trasformare! >>
A quelle parole la casa venne risucchiata da un vortice devastante, Antonio cadde esanime e la tela si ruppe in mille pezzi.
Il giorno seguente quando il museo aprì, nessuno si capacitò di che fine avesse fatto il dipinto con il paesaggio invernale. Al suo posto c’era un quadro raffigurante un cumulo di macerie fumanti e un gatto nero che veloce, guizzava verso il bosco di aranci.
© Laura Cattaneo
Uganda
Sono le sette del
mattino, qui l’aria è densa di odori caldi e sconosciuti, forse è la carne
arrostita lungo le strade o forse è semplicemente l’odore del sole. Anche la
luce è diversa, l’energia incontenibile dei colori esce dai contorni rendendo ogni
cosa sfuocata.
Eccomi a Kampala, una delle città più
grandi di tutta l’Africa. Kampala è la capitale dell’Uganda, un paese
con venti milioni di abitanti situato nel centro del continente nero; confina a
nord con il Sudan, a est con il Kenya, a ovest con il Congo e a sud con la
Tanzania. Nonostante sia chiamata “la perla verde” per la presenza di molti
corsi d’acqua e per l’abbondanza di vegetazione che ricopre il suolo, l’Uganda
è uno dei paesi più poveri del mondo.
Mi sono documentata sulla vicende di questo
paese: attualmente è in corso una migrazione di massa di tribù provenienti da
etnie differenti, che dalle zone rurali arrivano in città alla ricerca di
migliori condizioni di vita; inoltre al Nord, ormai da trent’anni, si combatte
una sanguinosissima guerra.
Intere famiglie
si riversano attorno alla capitale con la speranza di trovare lavoro e posti
più sicuri in cui vivere, ma il numero di persone che giunge qui è talmente
elevato che la città non ha le strutture e le risorse per accogliere tutti.
Davide sta guidando il pik-up
dell’associazione con cui mi è venuto a prendere in aeroporto. È un trentenne
di Varese arrivato in Africa dieci anni fa; qui conduce la sua vita. È il
responsabile dell’associazione e mi sembra simpatico.
Appena mi vede mi chiede se gli ho portato
il prosciutto crudo che mi aveva chiesto, poi ride sotto quella barbetta e
quegli occhiali che gli coprono il volto; solo in seguito scopro che la barba e
gli occhiali servono a ripararlo dal sole e che non è poi così simpatico.
Con il mezzo furgonato percorriamo diversi
chilometri attorno alla città, è una zona abitata da gente che vive in
condizioni disumane: le case sono capanne di paglia e sterco di mucca, le
strade si riducono a sentieri fangosi e putridi, le fognature sorgono a cielo
aperto accanto alle abitazioni e la gente cammina lungo le rotaie del treno,
dove si svolge la vita sociale.
Arriviamo alla sede dell’associazione: non
sembra un edificio locale, forse perché i costruttori sono volontari italiani.
L’ingresso è la sede operativa, ovvero un ufficio dove arrivano e partono ogni
genere di informazioni e di contatti, sia con l’estero sia con altre
associazioni; sulla destra una porta conduce alla cucina, indispensabile luogo
di ristoro, frontalmente il corridoio
conduce alle camere da letto e all’unico bagno.
Siamo in cinque in tutto: Davide,
Alessandro e Laura, due volontari, Femke, una cooperante olandese e io. Ci
sediamo attorno al tavolo che si trova al centro della stanza e Davide ci
illustra la situazione.
Qui oltre ai problemi di povertà c’è
l’instabilità politica di tutto il paese, che si vede frammentato in una
miriade di tribù in continua lotta tra loro; ognuna in difesa della propria
indipendenza e, soprattutto, la tragica guerra che ormai da oltre un trentennio
devasta la zona del Nord. La tragedia della guerra in corso vede uno spiacevole
atteggiamento del governo Ugandese che non si preoccupa del problema, mostrando
una mancanza di interesse per la popolazione che soffre.
Davide continua a raccontare: << Il
conflitto nel nord Uganda è esploso formalmente il 20 Agosto del 1986 e
prosegue da allora senza sosta, producendo in gran parte della popolazione e
soprattutto tra gli Acholi, la tribù maggiormente interessata nel
conflitto, l‘idea che esista un
particolare disegno negli alti ranghi del governo che mira a distruggere questa
tribù, il loro sistema sociale e la
loro cultura>>, si appoggia comodamente e con lentezza sullo schienale
della sua sedia di pelle nera, il suo posto di comando, si accende una
sigaretta e continua: << A ogni modo ora la guerra ha assunto una
dimensione vastissima oltrepassando il confine con il Sudan e prendendo a
diffondersi anche più internamente; tutto questo è conseguenza di un conflitto
etnico esploso nell’area del Triangolo di Luwero contro la popolazione del
nord, la quale veniva accusata di dominare la politica post indipendentista
dell’Uganda dal colonialismo inglese nel controllo delle forze armate. La
guerra si proponeva di porre fine a questa dominazione, ma l’obiettivo di un
certo gruppo di politici, capeggiato da Museveni, attuale presidente, e dal
professore Yusule Lule, era quello di impadronirsi del potere politico per così
imporre una nuova dittatura monopartitica sul paese sfruttando il fattore
etnico>>.
Sono sconvolta, mi sembra di essere in un
film di spionaggio, eppure è tutto vero; cerco di memorizzare le informazioni,
ma mi risulta difficile, non sono abituata agli affari esteri, eppure è tutto
così interessante!
Ho lasciato l’Italia solo da poche ore e mi
trovo davanti a degli sconosciuti a parlare delle sorti di un intero paese.
Stiamo andando a Namalu, un villaggio del
Karamoja, una regione a nord est del paese; scopo del viaggio è
portare dei soldi per comprare cibo
necessario agli abitanti in previsione della carestia che arriverà a dicembre.
Entrando in Karamoja si abbandonano le
poche strade asfaltate e la foresta, per entrare in una grande vallata rotta da
colline coniche. Le piste si fanno perpendicolari all’orizzonte, che trema
nell’aria incandescente. È un posto fuori dal tempo: il silenzio ti avvolge in
un senso di solitudine, percorri chilometri di strada senza incontrare nessuno;
poi all’improvviso vedi mandrie di mucche e bambini armati di arco e frecce. Se
ti addentri nella pianura scorgi qualche villaggio circondato da un recinto di
spine; incontri uomini coperti del solo mantello blu, con un mitra in spalla e
a volte il tipico seggiolino-cuscino di legno in mano: è sempre comodo averne
uno da queste parti!
Trovarsi in Karamoja è come fare un salto
nel passato, vivere situazioni legate al mondo primordiale. I Karimojon sono
tra le poche tribù che hanno sempre rifiutato il cambiamento rimanendo
attaccati alla proprie tradizioni; perfino i coloni inglesi non sono riusciti a
cambiarli e, dopo inutili tentativi, decisero di fare del Karamoja un grande
parco naturale.
Seminomadi, vivono in villaggi vicini a
fiumi e corsi d’acqua, le donne si dedicano all’agricoltura e all’istruzione dei
figli, mentre gli uomini praticano la transumanza in altopiano e seguono il
bestiame tornando a casa durante il periodo delle piogge.
Questa tribù porta ancora i segni della
tremenda carestia che, nel 1979, aveva ucciso migliaia di persone.
La carestia e l’insicurezza militare e
politica rendono il Karamoja una delle regioni più pericolose di tutto il
centro Africa.
Il viaggio è piuttosto lungo e pericoloso,
sappiamo di essere in mezzo alla savana, non c’è nulla nell’arco di decine e
decine di chilometri e il rischio è quello di un agguato. Niente soste, si tira dritto, in velocità,
su una strada dissestata di terra rossa polverosa.
Mi guardo attorno e vedo un orizzonte
infinito contornato da arbusti dalle forme più svariate; tutto è arido, ma non
desolato.
Davide ci avverte di non farci ingannare
dalle apparenze, in realtà c’è sempre qualcuno che spunta fuori dal nulla,
magari un bambino con secchi di acqua sulle spalle da portare alle capanne;
oppure qualche donna con i mitici cesti colorati sulla testa contenenti
indumenti e cibo, o uomini armati in divisa.
Infatti c’è un blocco militare proprio
davanti a noi, è un confine di stato, siamo obbligati a fermarci.
Davide parla con loro con un inglese mai sentito prima, sa cosa dire e come
dirlo, ma l’espressione del suo volto è
tutt’altro che rassicurante.
Ripartiamo, sembra preoccupato, dice che è
meglio sbrigarsi e non aggiunge altro. Arriviamo al villaggio dopo sette ore.
Ci accoglie un cooperante di quelli che vedi in televisione: ha la barba
incolta, i capelli arruffati e il viso sporco.
È l’ora del tramonto e la nostra guida ci
consiglia di non perdere lo spettacolo. Non è il rosso che conosciamo, è una
reazione tra il sole e l’aria, tra la terra e il cielo, intangibile, ma denso
di colore: è un misto tra sogno e realtà.
Passano pochi minuti e sentiamo uno strano
rumore in lontananza: guardiamo meglio e ci accorgiamo che un altro pik up,
simile al nostro, ma con le ruote sgonfie, ci raggiunge con un andare
singhiozzante. A bordo, una decina di ragazzetti armati di fucili, e un morto.
Un quarto d’ora dopo il nostro passaggio dal confine c’è stato un agguato con sparatoria, ma al momento non
sappiamo niente di più.
<< È la prima volta dopo dieci anni
che fanno un agguato a Namalu>>, spiega Davide. «Il cadavere è stato
trapassato da un proiettile che è entrato dalla nuca ed è uscito dalla faccia.
L’ho visto, vi giuro!»
Il morto deve immediatamente essere
trasportato a Moroto, che dista circa quattro ore di macchina, così alle otto
di sera Davide e i parenti del defunto caricano il cadavere sul nostro pik up,
avvolto in lenzuola e sacchi di plastica: partono.
<< Ci lasciano qui?>> Esclamo
sbalordita.
Non è poi così simpatico il nostro
responsabile a lasciarci soli nel bel mezzo della savana. I pochi abitanti nei
paraggi parlano solo suaili, la
situazione attorno non è confortante con l’eco dei colpi di fuoco in
sottofondo!
Passiamo la notte in una costruzione
precaria, i letti sono brande, i topi di tanto in tanto attraversano la stanza,
ma non mi preoccupano, sono gli spari che si sentono in lontananza a non farmi
dormire!
Davide e gli altri rientrano che sono ormai
le sei del mattino e non sembrano tranquilli; per ragioni di sicurezza è più
sicuro fermarsi alcuni giorni in attesa di formare un convoglio.
Passano tre giorni, i più lunghi della mia
vita. Mi ripeto più volte che non mi metterò più in questi pasticci e che se
riuscirò a tornare a casa sana e salva mi darò all’uncinetto.
Sono giorni di silenzio e di attesa,
poi, un convoglio di soldati che passa
di vedetta, ci scorta fuori dal Karamoja.
Durante il rientro Davide, alle prese con
una guida spedita, ci racconta che la stessa notte dell’umbush (agguato), sono
stati ammazzati due missionari italiani nel villaggio vicino. La situazione è
calda per via del disarmo che è in corso per ordine del Governo, chiunque abbia
un’arma in mano spara in difesa della sua sopravvivenza.
<< Scampare a due agguati nello
stesso giorno non mi era mai capitato>>, ci dice.
Noi siamo gli ultimi volontari a passare il
confine con il Karamoja: l’Uganda ha deciso come accogliermi!
“Solo con il tempo il liquido morbido
comincia a decantare: forme evanescenti
si precisano e la confusione piano piano si dissipa. Il tempo più che logorare
i ricordi e seppellirli, costruisce con i loro frammenti solide fondamenta che
forniscono un equilibrio più stabile e contorni più chiari. Un ordine è stato
sostituito ad un altro”.
© Patrizia Dal Pont
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