L'ULTIMA POESIA di Carola Corbetta
Eccomi qua, sopra questi fogli bianchi,
io, proprio io che non ho mai scritto nemmeno gli auguri di Natale, firmandomi
solo col mio sorriso che bastava per farmi ricordare.
«Alda non puoi più vivere sola nella tua grande casa, hai bisogno
d'aiuto, di compagnia, di qualcuno che badi a te; la Casa dei Gelsomini è
accogliente e ben curata, il personale in grado di soddisfare tutte le tue
piccole e grandi esigenze ed è vicina a noi, verremmo spesso a trovarti».
Quelle furono le parole che mi disse Giovanna, l'unica mia figlia. Per
dirmi che avrei dovuto lasciare la mia bella casa, i miei ricordi, il mio
vivere lento, ma tranquillo.
Purtroppo dalla morte di Paolo, l'uomo che ho amato di più al mondo, il
mio vivere sola era diventato a volte straziante, fatto di attese, di
campanelli mai suonati o di un telefono muto e insensibile.
Sono sempre stata una donna attiva amante dei viaggi, ho girato con
Paolo in lungo e in largo tutte le mete che cercavamo con curiosità. Una bella
casa in centro, luoghi che percorrevo con gioia, ritrovando Augusto, il
fruttivendolo, sempre pronto alla battuta; Maria, la mia parrucchiera
preferita. Il suo modo di vestire era sempre una novità: super colorato e
stravagante. Poi c'era Giorgio, il giornalaio, sigaretta sull'orecchio e
occhiali calati sul suo nasone.Tutti personaggi strani, ma sempre allegri, il
loro buon giorno era diventato un'abitudine gioiosa per me.
Nella mia grande casa aprivo le finestre e vedevo il sorgere dell'alba o
l'addormentarsi di un tramonto e, con Paolo, coloravamo quel momento,
canticchiando le nostre canzoni di Dalidà, Modugno e Tenco, che dolce melodia
risento ancora!
Il profumo del caffè, i dolci che sfornavo per Giovanna, il thè con le
amiche farcito di pettegolezzi vecchi e nuovi; le cene, il teatro, un cinema e
le nostre malattie curate con amore.
Paolo un giorno di primavera ha lasciato tutto questo per sempre,
ricordo ancora quel giorno: era una mattina di sole e in un attimo, si è
oscurata la mia vita, se né andato col suo solito sorriso pieno d'amore e io,
nei suoi occhi, ho chiuso la mia voglia di vivere.
«Alda, preparati, stasera andiamo al cinema. C'è un film strappalacrime
come piace a te». Risento ancora la sua voce che risuona nella stanza.
Sono passati mesi da quel giorno e tutto si è fermato, Giovanna è qui e
con tanta calma e con un sorriso malinconico, sta preparando la mia valigia.
«Mamma, ma devo mettere anche il tuo cappotto e il cappello? Magari te
lo porto al cambio di stagione, così qui lo conservi meglio, che dici?»
Non riesco a pensare a quel cappotto, Paolo ci rideva sempre su, mi
diceva che mi faceva una bella signora dai modi francesi, un poco aristocratica
e snob e io ci ridevo mettendoci anche il cappellino verde in testa, per
rendermi ancora più credibile ai suoi occhi.
Questo non è il solito viaggio, per chissà quale meta meravigliosa, è un
viaggio per una nuova casa, per incontrare, conoscere e vivere con nuove
persone, per me sconosciute.
Dalla morte di Paolo le parole non mi uscivano più né dalla bocca, né
dal cuore; prima di partire il mio medico, il caro dr. Ballerini mi ha visitata
e rincuorata, consigliandomi di prendere questa decisione con tranquillità,
magari scrivendo e riportando su dei fogli i miei ricordi, i miei stati
d'animo.
Io così ho fatto: ho acquistato prima di partire un libricino verde con
delle piccole incisioni gialle, come se fossero dei raggi di sole, ma io vedo
solo nuvole, nuvole cariche di pioggia.
Ventiquattro novembre... non potrò scordare mai quella data, il giorno
del mio ingresso nel nuovo mondo, una sensazione disarmante, mi sentivo come la
vita spezzata in due, buttata in un vivere che non conosci, che non ti conosce.
Il tempo non è più tempo, ma attese scandite da abitudini che non riconosci,
ma che devi far tue, è come vivere una doppia vita e a volte ti senti strappare
quello che per settanta anni era stato tuo, che avevi costruito con tanta
gioia, fatica dolore e speranze.
Voi non potete capire, non potete immaginare cosa vuol dire dormire in
un altro letto, lavarti in un altro bagno comune, mangiare con tante persone
che urlano, ridono, piangono sopravvivono e tu... guardi. Ma cosa!
Non è il tuo vivere, non è così che volevo vivere: alla sera nel mio
letto con sbarre che stridono, come l'alzata di una vecchia bandiera sbiadita,
mi accuccio come un animale impaurito e lì ricordo, penso, immagino e chiudendo
gli occhi, volo... lì, dove sono solo Alda e posso fantasticare e scrivere.
Ho un cellulare regalatomi da Giovanna prima della grande partenza, un
regalo per addolcirmi la pillola, un regalo per tenermi ancorata come un
vecchio relitto a una banchina di un mare lontano e sconosciuto.
«Mamma pronto, ciao tutto bene? Cosa hai mangiato oggi? E la visita dal
dottore com'è andata?»
«Ciao, sì bene. La visita niente di nuovo, tutto bene. Anzi, mi dice che
sono in perfetta forma. Ah dunque... ho mangiato dello spezzatino: frutta,
caffè col dolce, non avevo molta fame. Sai, Carla insiste sempre quando lascio
nel piatto, dice di ripulire tutto, mi sento quasi come un bimbo che deve
mangiare tutta la sua pappa per avere il bacio dalla mamma».
«Non sei mai stata una gran mangiona, tu prendi quel che ti senti e se
non ti va lascialo nel piatto, poi con la caposala ci parlo io e sento il
dottore per la visita che hai fatto. Son contenta che tutto vada per il meglio,
ora ti lascio ho da prendere i monelli a scuola, poi ci risentiamo, un bacio».
«Va bene, ciao. Salutami tutti... ha già riattaccato, la solita
fretta...»
Quante volte ho guardato dalla finestra, quella grande finestra che come
un grande schermo mi ributta il mondo dentro, dentro in una scatola illuminata
da risa nascoste: da sorrisi gettati e lasciati scivolare, da urla, silenzi,
visi che entrano ed escono in un tempo scandito da rintocchi silenziosi; un
brulicare di gente che va e che viene, ti saluta, ti tocca, ti incita, ti
accompagna al bagno, in sala da pranzo, in chiesa, in giardino... ma io a volte
voglio stare da sola, sola con la mia vita e non con quella degli altri.
Ho seguito il consiglio del mio medico e scrivere mi dà forza, mi rende
ricordi colorati, mi dà speranza per poter continuare in questo nuovo cammino;
ma la luce, quel piccolo frammento di vita, non può star sempre accesa, anche
la luce ha i suoi tempi e io con lei.
«Signora Alda la vedo bene oggi, sempre elegante e con i capelli in
ordine».
La caposala Delia è una persona che mi indispone, il suo sguardo mi
innervosisce, chiude gli occhi e ti guarda da quelle piccole fessure come a
voler farmi la lastra su tutto il corpo; io la evito un saluto veloce e via per
i corridoi, lontana dal suo sorriso.
«Sì, sì bene, buon giorno, ora scappo devo fare una telefonata». La
solita scusa per abbandonarla coi suoi convenevoli.
Attendo sempre, come una fame improvvisa, la visita di Giovanna e dei
tre nipoti; vengono nel poco tempo possibile, poche chiacchiere, un giornale e
poi via, nel loro caos di tutti i giorni.
«Eccoci mamma, tutto bene. La casa è in ordine, bollette non ce ne sono,
i tuoi abiti tutti lavati, stai tranquilla, vado ogni giorno ad aprir le
finestre e a cambiar l'aria. Ti ho portato i grissini e il bagnoschiuma quello
che piace a te. Su, date un bacio alla nonna, sai devo portarli in palestra,
son sempre di corsa. Bene, se non ti serve nulla noi andiamo, magari mandami un
messaggio se vedi che ti manca qualche cosa. Ciao ciao».
Li abbraccio, li guardo, li scruto e sento la litania, le solite parole
come una processione lenta in un vecchio paese di montagna; annuisco, sorrido,
accarezzo e trattengo le lacrime e la voglia di urlare: “Riportatemi con voi
nella mia casa!” Li saluto e bisbiglio un: «A presto».
Conto i giorni, le ore, i minuti per poterli rivedere, sentire che per
un sol attimo, faccio parte ancora della loro vita.
Stiamo preparando gli addobbi per il Natale che si avvicina, qui c'è
fermento; chi prepara canti, chi impacchetta doni, chi sferruzza presine,
centri o sciarpe coloratissime. Io... scrivo.
Tutte le sere nel mio tempo di luce, ho scritto riportando sul mio
libricino la mia gioia: il mio dolore, le ansie e la mia solitudine impastata
alla speranza, su fogli bianchi, freddi come un fiocco di neve e leggeri, come
un soffio d'aria gelida.
Ho preparato una poesia per Natale; la dottoressa Galli, la direttrice,
donna sensibile, sempre sorridente con un cuore docile; ma nello stesso tempo
determinata nel condurre questa grande casa, mi ha esortata chiedendomi di
scrivere e di preparare una bella poesia, da poter leggere nella notte di
Natale.
«Alda sono certa che ci preparerai una poesia speciale, non vedo l'ora
di sentirla».
«Certo dottoressa Galli, la sto già preparando, ma sarà difficoltoso per
me leggerla, sa l'emozione!»
«Ma no, dai, sono certa che tutti rimarranno sbalorditi. Ora vado mi
aspettano in direzione, buona giornata Alda».
«Buona giornata anche a lei». Ho tra le mani il mio piccolo libricino,
come se fosse un bimbo da cullare nel sonno, lo sfioro e lo addormento tra le
mie mani e scrivo, scrivo soprattutto nelle mie sere di solitudine. Nella mia
cameretta ci sono poche cose che ricordano la mia casa: la foto con Paolo in
crociera, i miei libri preferiti, una piccola radio regalatami a un compleanno
e dei girasoli in un piccolo vaso, sono gli ultimi fiori che Paolo mi ha
regalato, io li ho conservati come si conserva un'amore profondo e unico.
Ho fatto amicizia con Gianni, Luca e Amalia, anche loro qui in attesa di
vivere il loro tempo; ci troviamo per un caffè alla macchinetta nell'atrio,
giochiamo qualche volta a scala quaranta e ci consoliamo a vicenda nei nostri
momenti di tristezza.
Ma passiamo anche dei momenti di gioia camminando nel giardino della
casa, li è il nostro momento di libertà, ci divertiamo guardando il via e vai
delle auto sempre rombanti sulla strada principale, tenendoci a braccetto e
stringendoci per sentire il calore e l'affetto che ci unisce, noi non abbiamo
più così tanta fretta di correre, anzi rallentiamo sempre il passo e la nostra
vita.
Mancano pochi giorni a Natale e la mia poesia è pronta, l'ho trascritta
su un foglio bianco, bello grande così non farò fatica a leggerla, è li sul
comodino e, quando la guardo, sento tremare lo stomaco dalla paura: come farò a
leggere, come farò a respirare quelle parole, come farò a zittire il mio
dolore?
E' la notte di Natale, siamo tutti presenti vicini a un grande albero
che illumina sorrisi spenti o riaccesi da una flebile speranza, la speranza che
voi non vi dimentichiate di me e di noi, che viviamo in questa grande casa, ma
che non è la nostra dimora coccolata tutta una vita.
Questo è il mio regalo di Natale, la mia ultima poesia scritta per la
vigilia di quel lontano 1985.
Ho preso coraggio e mi sono schiarita la voce, erano tutti presenti: gli
ospiti della casa, la direttrice, i medici e tutti i parenti, tutti stretti da
sorrisi di circostanza. Loro torneranno nelle loro case, abbracceranno i loro
cari e potranno vivere tutto il tempo come vogliono, senza questa sorta di
coprifuoco.
«Dai Alda ora tocca a te, il tuo momento è arrivato, tutti in silenzio
per favore , sentiamo la poesia che ha scritto per noi».
Ecco, quel momento è arrivato e ora tutti sapranno come mi sento, cosa
provo e cosa ho nel cuore: tanta solitudine e senso di abbandono, rischiarato
ogni tanto da brandelli di gioia inattesa.
C'è un silenzio pesante, un'attesa strana e un poco gelida, proprio come
questa notte di Natale; il freddo che c'è fuori avvolge anche tutti noi, qui
dentro.
«Forza prendi coraggio e leggi». Giacomo, un arzillo vecchietto di 87
anni, mi incita e allora, dopo un sospiro, inizio.
«Ho scritto questa poesia per me e per tutti voi che avete lasciato il
vostro mondo fuori da questa casa; non è il luogo che noi abbiamo costruito con
anni di sacrifici di lotte, gioie e dolori, è solo un luogo di passaggio per
chissà quale meta. Un luogo pulito, curato, pieno di voci e di gesti, ma non
sono quelli che noi vorremmo fare nel nostro tempo e con i nostri tempi. E' un
canto di solitudine, è un fermare le immagini a tanto tempo fa, dove tutto
quello che facevamo era solo nostro. Ora dobbiamo condividere tutto e, tutti
insieme, continuare un cammino scandito di attese silenziose, la poesia si
intitola “Uomini soli tra le mura”. Non cerco più di fuggire, tu entri nella
mia vita come suono non voluto non desiderato, distrugge il mio canto...
Io vivo nell'attesa avvolta di solo istanti
senza tempo, né colore. Sento le tue mani, le tue parole il tuo irrompere nel
mio mondo, sul mio corpo, frantumando i miei ricordi oramai spenti, spenti
nella mia solitudine.
Eppure rimani lì di fronte a una vita
così preservata e custodita, cosa rimane di me? Solo contare respiri!
Ma i tuoi sono gesti senza amore,
schiacciati da un repentino ripetersi in minuti, giornate infinite, avvolte da
occhi che piangono frammenti di dolcezza scordata.
Io non muovo più il mio corpo, tra le tue
mani rimango in balia di movimenti senza melodia.
Solo il mio silenzio mi accompagna, sogno
un sorriso nascosto in un velo di lacrime, sepolte tra ricordi.
Era la mia vita, quella!
Tu ora la cancelli con l'indifferenza,
cancelli sogni, non ascoltando il mio ultimo respiro».
Silenzio, attesa, brivido, questo è quel che ho sentito sulla mia pelle,
non posso credere di avere letto tutto d' un fiato quel che ho scritto e alzare
lo sguardo è faticoso.
La paura di aver raccontato il mio dolore mi ha pietrificata, solo le
luci dell'intermittenza del grande albero fanno rumore, tutto il resto è un
respiro malinconico.
«Brava, che poesia speciale hai scritto per tutti noi». Queste sono le
flebili parole di Ugo, sussurrate anche da Pietro, uomini di carattere, ma
ancora dalla lacrima facile; poi un applauso a piene mani risuona nel grande
salone e tutto in un sol attimo riprende vita. La dottoressa Galli con il
dottor Mauri mi stringono la mano; gli animatori mi abbracciano e sbaciucchiano
per la gioia, Giovanna con Mauro e i piccoli mi circondano, increduli delle
parole udite, tutto riprende colore, vita e suono, con i canti di Natale e gli
occhi lucidi dall'emozione.
Che bei momenti che bel ricordo quel lontano Natale!
Ho continuato a scrivere gioie e dolori, passioni e speranze su carta
bianca come quel fiocco di neve del lontano '85; sono sbocciati dolci amori,
qualcuno ci ha lasciato tra sofferenze o in sonni senza più ritorno, chi si è
sposato tra gli infermieri e i medici e chi ha partorito; chi in un gesto folle
e insensato ha spento la propria vita su nuda terra, lasciandoci senza
risposte, lasciandoci il suo ricordo in un sorriso gioioso, ma forse mascherato
da tanta sofferenza e solitudine d'anima.
In una bella e calda giornata di primavera Anna, la responsabile
dell'animazione, mi chiama e mi dice: «Alda, devi venire ogni martedì da noi in
sala animazione, ci devi dare una mano con i preparativi per le ricorrenze, che
ne pensi?»
«Certo ci verrò, porto il mio libricino e volentieri vi darò una mano».
Ogni martedì sono presente con tutto il gruppo dell'animazione, preparo
piccole battute, pensieri da riportare sulla locandina degli eventi.
Don Mauro, il parroco della chiesetta, mi ha chiesto di preparare dei
piccoli pensieri da leggere nelle messe pomeridiane e la mia poesia è stata per
tutto il periodo natalizio appesa alla bacheca principale del salone della Casa
dei Gigli, luogo d'incontri speciali per tutti noi ospiti.
Il tempo scorre e io mi sento vecchia, stanca e spenta, gli anni passano
veloci, inesorabili e mi pesa vivere solo con i ricordi; ora non scrivo da
parecchio tempo, ho fermato in questo letto, accanto ad una grande finestra, il
mio vivere.
Una grave malattia ha bloccato i miei movimenti e io attendo il giorno,
le ore e i minuti, come note sorde battute su un vecchio pianoforte.
Ma se non posso più scrivere le mie poesie, posso sognare e volare fuori
da quella finestra e ritornare con Paolo, Giovanna e la sua famiglia, nella
nostra casa in quella via piena di vita e di ricordi.
Mi rivedo là, mentre sfioro i miei fiori e mi lascio addormentare dal
loro profumo... In un attimo, sento e rivedo Paolo, accanto a me.
« Mamma, mamma...buon viaggio».
CESARE di Lorenza Mondina
E’ stato in quel momento che ho realizzato il pensiero che poi è
sempre stato sotto il velo dell'acqua: era il mio compleanno, una
bella giornata d'autunno e stavo facendo il mio lavoro pomeridiano.
Il mio lavoro consiste nell'occuparmi delle persone, e anche quel
pomeriggio stavo facendo una delle cose che mi riescono più agevoli:
ero a casa di un signore anziano per valutare come era la sua
esistenza adesso, quante cose ancora ricordava, quanto ancora
riusciva a fare per se stesso. Ma quella volta non si trattava di un
anziano qualunque, non era uno dei tanti “nonni” che incontro
nella mia vita professionale, ma era Cesare, Cesare di Rivello.
Rivello è il luogo da cui una parte di me proviene, dove sono
cresciuta e dove ho trascorso periodi della mia vita molto
significativi; a Rivello c'è un pugno di case, ci sono due chiese,
(una delle quali diroccata, che porta con se una storia
affascinante), e c'è una bella fontana dove scorre acqua limpida e
freddissima, anche ad agosto.
Alla fontana ci si trova con gli altri abitanti del paese, siano essi
bambini, adulti o anziani: a mezzogiorno e all'ora di cena si va a
prendere l'acqua nelle caraffe di vetro colorate, durante il giorno e
alla sera si sta tutti lì, nella piazza del paese; tante volte ci si
finisce anche dentro, a quella fontana, in quell'acqua gelata anche
nei giorni più caldi dell'estate.
E' in quella fontana che bevevano le mucche di Cesare, si
dissetavano al ritorno dal pascolo giornaliero sul monte, mentre,
come in una fotografia variopinta da colori vivaci, i bambini che
siamo stati si mettevano sulla collinetta del prato a osservare con
un misto di fascino e timore.
Cesare le accompagnava, le guidava ogni mattina e ogni tramonto,
come a scandire il tempo della giornata, con un bastone e con qualche
richiamo vocale che ci divertiva sempre.
Adesso Cesare è davanti a me, afflitto da un forte tremore che
non riesce a controllare e che gli impedisce di badare a se stesso ma
che non gli ha tolto la lucidità di pensiero, non gli ha tolto lo
sguardo dell'esperienza e dei ricordi; mi riconosce, mi risponde se
faccio domande, mi sorride anche, in un paio di occasioni.
Quando facciamo le visite agli anziani, io e il mio amico medico
chiediamo che ci sia qualcuno che possa raccontarci chi è la persona
che abbiamo davanti, che ci racconti cose che non conosciamo, che ci
mostri, pur inconsapevolmente, tutta la sofferenza e il vissuto di
chi sta accanto a un malato: con Cesare oggi c'è Giovanni, suo
figlio, e padre di due dei miei più cari e vecchi amici.
Giovanni ci racconta come Cesare non riesce più a fare ciò che
faceva fino a pochi mesi fa, ci dice che non può più essere
lasciato solo perchè non è più in grado nemmeno di alzare le
tapparelle per vedere la luce del giorno senza l'aiuto di qualcuno.
Poi il discorso, come spesso accade, finisce un po' di più su
quando Cesare stava bene, su come Cesare lo conoscevamo tutti a
Rivello e sul volto di Giovanni compare un sorriso amaro, che mi fa
passare un fulmine nella testa, mi fa comparire vivida nella mente
un'immagine tanto rasserenante quanto angosciante.
Se volto lo sguardo ora, vedo il mio caro amico geriatra, il
“dottore dei nonni”, che parla con Cesare e Giovanni mentre nello
sguardo della mente vedo un pomeriggio d'estate, un'estate qualsiasi
qui a Rivello, alla fontana, noi ragazzi giochiamo a uno dei giochi
che la nostra capacità di adattamento ha creato, con un sottofondo
di suoni, voci, musica: quello che risalta di più in quel preciso
momento, in quell’istantanea della mia memoria, è una risata di
Giovanni, una fragorosa e forte risata, una delle tante che riempiono
l’aria estiva del nostro amato paesino e che ha reso Giovanni unico
e caratteristico, insieme alla sua pancia, che sembra essere una
valida giustificazione del suo personalissimo modo di ridere.
Ecco il mio pensiero lì con Cesare, in quel malinconico
pomeriggio di metà autunno: Giovanni non riderà più così, una
parte di lui sarà per sempre tinta del male di Cesare, delle loro
due sofferenze, così diverse ma così unite e indissolubili; mi dico
che la vita è così, che tutto ci segna, tutto ci cambia, tutto
rischia di indurirci, e comincio a pensare alla perdita delle
innocenze, delle gioie e al dolore che talvolta i ricordi ci
provocano.
In sottofondo ci sono sempre i ricordi, con le gioie e i dolori
che fanno nascere se li rievochi, ascoltando una canzone, una risata,
guardando una fotografia, un’immagine, un viso o annusando un
profumo. Eppure sono fondamentali, mi dico, sono necessari, e, oltre
a farci male, ci aiutano: sono quei fasci di luce che ci permettono
di mantenere vivo un viso perduto, una parola, un gesto.
Adele di Laura Cattaneo
Molti anni fa, in una giornata fredda e piovosa, arrivò la
nuova vicina, dirimpettaia del mio bilocale in una corte elegante di Brera. La
incrociai casualmente sulle scale, nel suo incedere lento che arrancava con le
borse della spesa.
Nonostante fossi già carica di sacchetti, tracolla e libri, mi
offrii di aiutarla. La signora Adele canuta e magrolina, mi ringraziò e
insistette perché entrassi un momento da lei. Accettai, nonostante non facessi
i salti di gioia nel varcare la soglia di una
casa che a detta degli altri condomini, un po’ superstiziosi, era infestata dai
fantasmi.
L’appartamento era abbastanza grande, stracolmo di libri
ingialliti dal tempo. La signora Adele mi raccontò che era originaria della Val
Camonica, terra di maghèt, e che aveva ereditato quella casa dai suoi ex datori
di lavoro: imprenditori milanesi presso i quali aveva lavorato moltissimi anni
come governante.
Ci accomodammo in salotto su due poltrone di pelle. Notai che
l’arredamento era molto curato: su un maggiolino in noce c’erano diverse
fotografie in cornici d’argento e soprammobili vari. Il tappeto damascato, le
tende arricciate color magenta, rendevano la stanza calda, accogliente.
Adele mi porse una tisana di biancospino, che si rivelò un vero
toccasana in quella terribile giornata invernale. Con le mani bianche,
affusolate si ricompose i capelli grigi, raccolti in una crocchia, e si strinse
in uno scialle di lana nero.
Con fare discreto mi chiese che cosa facessi di bello.
Riposi la tazza fiorata sul tavolino di marmo e raccontai la
solita mezza verità:˂˂Frequento la facoltà di storia alla Statale˃˃.
Adele accennò un
lieve sorriso; notai che nonostante l’età avanzata, la sua dentatura era
perfetta. ˂˂Interessante˃˃, disse.
Pensai che si stesse chiedendo che lavoro facessi e come potessi
permettermi di vivere in quella zona. Ovviamente nessuno sapeva che avevo vinto
il montepremi da capogiro al superenalotto, così aggiunsi:˂˂Sono vedova˃˃.
All’Università
ci andavo davvero, mi piaceva moltissimo. Era la mia occupazione principale,
davo il massimo. Che fossi vedova non era vero, ma era stata la scusa più
credibile che il mio avvocato mi aveva suggerito d’inventare al tempo della
vincita, qualora qualcuno mi avesse chiesto spiegazioni.
La vecchia signora mi guardò impassibile:˂˂Capisco˃˃, aggiunse.
Era di poche parole, piuttosto algida, tant’è che mi chiesi per
che motivo mi avesse fatta entrare. Mi guardava stralunata, assente. Nei suoi
grandi occhi castani, colsi una vena di cattiveria che mi fece accapponare la
pelle. La salutai comunque calorosamente, ma Adele disse solo:˂˂Addio˃˃.
***
Ormai sono passati trent’anni dal giorno in cui conobbi Adele.
Quella stessa notte venni svegliata improvvisamente, portata in caserma e
accusata dell’omicidio della mia vicina di casa. Fu inutile gridare la mia
innocenza, nessuno mi credette, tutte le prove furono contro di me: il coltello
con le mie impronte, le urla udite dai vicini. Invano raccontai la mia versione
dei fatti e qualcuno ipotizzò che fossi addirittura pazza.
In carcere ebbi molto
tempo per continuare gli studi e leggere testi su elfi, gnomi, folletti e
creature fatate. Scoprii che i maghèt erano esseri malvagi, dispettosi, capaci
di provocare liti tra gli uomini e assumere le sembianze più disparate: gallo, signore
compito, donnina mite e canuta, ma assolutamente terrorizzati dalle immagini
sacre.
Capii che era solo questione di tempo, giurai a me stessa che mi
sarei vendicata.
Il giorno in cui venni scarcerata, mi recai in fretta e furia
alla libreria della Pinacoteca: acquistai una quantità spropositata di
cartoline dello Sposalizio della Vergine di Raffaello, della Madonna della
Candeletta di Crivelli, della Crocifissione di Bramantino e corsi a casa munita
di puntine e nastro adesivo.
Forsennatamente iniziai ad attaccare le cartoline sulla porta e
sugli stipiti di quell’appartamento maledetto; infilai alcune riproduzioni
sotto l’uscio, altre le gettai alla rinfusa sullo zerbino. Non appena terminai
il mio collage, lo stabile iniziò a tremare come scosso dal terremoto. L’appartamento
si sbriciolò e una nube densa nera come la pece, si disperse nelle profondità
della terra.
Magicamente le lancette del tempo tornarono indietro: mi
ritrovai sull’ultima rampa del condominio, dietro una vecchina apparentemente
innocente. La sorpassai noncurante, e non appena mi fu abbastanza vicina, le
feci lo sgambetto senza pietà. Adele ruzzolò come un sacco di patate sul
pianerottolo lamentandosi e inveendomi contro.
Quella che agli
occhi di tutti poteva sembrare la nonnina saggia e indifesa della porta
accanto, scomparve all’istante e si trasformò in un esserino veloce, rosso
fuoco, che si rifugiò in cortile sotto una pianta di ginepro, i cui aghi sono
ancora oggi il simbolo della malvagità.
NIENTE PIU’ DUBBI di Donatella Caprioli
<< Basta! Sono stanca! E' finita! E' così che gli dirò. Sono stanca: stanca, stanca!>>
Gianna uscì di casa, salì in macchina e si avviò verso la spiaggia che distava quindici chilometri da Roccaverde, il paesino in cui viveva. Non aveva pranzato, non aveva appetito.
Era una fredda giornata di metà febbraio, quando le giornate cominciano ad allungarsi e paiono più luminose.
Voleva respirare a pieni polmoni, in casa le mancava l'aria, ma neanche uscire per le strade l'avrebbe rinfrancata dal bisogno che aveva di aria.
Aveva il cuore colmo di rabbia e dolore.
Guidò con calma, in compagnia di tutta quella rabbia, con un sottile senso di rassegnazione e impotenza.
Accese lo stereo per farsi compagnia, il silenzio le era insopportabile. Gli speaker parlavano, mettevano musica, ma a Gianna arrivava tutto come un ronzio; meglio della taciturnità di quel pomeriggio.
Durante il tragitto si lasciò andare al pianto. << Bastardo!>> urlò, tanto nessuno la sentiva.
<< Basta! Sono stanca! E' finita! E' così che gli dirò. Sono stanca: stanca, stanca!>>
Gianna uscì di casa, salì in macchina e si avviò verso la spiaggia che distava quindici chilometri da Roccaverde, il paesino in cui viveva. Non aveva pranzato, non aveva appetito.
Era una fredda giornata di metà febbraio, quando le giornate cominciano ad allungarsi e paiono più luminose.
Voleva respirare a pieni polmoni, in casa le mancava l'aria, ma neanche uscire per le strade l'avrebbe rinfrancata dal bisogno che aveva di aria.
Aveva il cuore colmo di rabbia e dolore.
Guidò con calma, in compagnia di tutta quella rabbia, con un sottile senso di rassegnazione e impotenza.
Accese lo stereo per farsi compagnia, il silenzio le era insopportabile. Gli speaker parlavano, mettevano musica, ma a Gianna arrivava tutto come un ronzio; meglio della taciturnità di quel pomeriggio.
Durante il tragitto si lasciò andare al pianto. << Bastardo!>> urlò, tanto nessuno la sentiva.
<< Figlio di puttana! Bugiardo!>>
Arrivò sul lungo mare, parcheggiò e scese dalla macchina; una sferzata di vento freddo la schiaffeggiò. Osservò per un momento la spiaggia deserta, si chiuse il giubbotto e si avvolse la sciarpa al collo; s’ incamminò. Il mare era un po' mosso, non aveva una meta precisa, solo voleva camminare, e la spiaggia offriva molto spazio.
Il rumore delle onde le arrivava come un invito al grido, i gabbiani glielo insegnavano. La sofferenza che sentiva era tanta, era confusa, disperata. Cominciò a correre sulla sabbia, ma dopo pochi metri inciampò e cadde a faccia in giù. In quella posizione cominciò di nuovo a piangere disperatamente, sbattendo i pugni sulla sabbia. << Bastardo! Bastardo! >> urlò finché, sfinita, il pianto divenne sommesso e silenzioso.
Aveva il viso, i capelli e i vestiti impastati di sabbia. Rimase così per un po', non sentendo il freddo, non sentendo niente: si lasciò andare a quella disperazione.
Arrivò sul lungo mare, parcheggiò e scese dalla macchina; una sferzata di vento freddo la schiaffeggiò. Osservò per un momento la spiaggia deserta, si chiuse il giubbotto e si avvolse la sciarpa al collo; s’ incamminò. Il mare era un po' mosso, non aveva una meta precisa, solo voleva camminare, e la spiaggia offriva molto spazio.
Il rumore delle onde le arrivava come un invito al grido, i gabbiani glielo insegnavano. La sofferenza che sentiva era tanta, era confusa, disperata. Cominciò a correre sulla sabbia, ma dopo pochi metri inciampò e cadde a faccia in giù. In quella posizione cominciò di nuovo a piangere disperatamente, sbattendo i pugni sulla sabbia. << Bastardo! Bastardo! >> urlò finché, sfinita, il pianto divenne sommesso e silenzioso.
Aveva il viso, i capelli e i vestiti impastati di sabbia. Rimase così per un po', non sentendo il freddo, non sentendo niente: si lasciò andare a quella disperazione.
Una voce la fece
sussultare: <>
Gianna si mise a sedere di scatto, quella voce l'aveva spaventata.
Gianna si mise a sedere di scatto, quella voce l'aveva spaventata.
<< Non si
spaventi signora, non le faccio niente!>>
<< Sto bene grazie>>. Si ripulì il viso alla meglio e alzò lo sguardo, verso quel signore sulla cinquantina d'aspetto gradevole.
Alle sue parole l'uomo sgranò un po' gli occhi. << L' ho vista agitarsi e poi immobilizzarsi di colpo, non volevo disturbare>>.
<>.
<>
<< Sì, amore e stupidità>>.
<< Ahi! Direi che è grave! Una cioccolata calda può lenire i sintomi? Si deve scaldare un po' o si ammalerà anche nel corpo>>.
<< Sì, ha ragione, grazie>>.
L'uomo l'aiutò ad alzarsi, le faceva un po' male il ginocchio per la caduta, si scrollò alla meglio dalla sabbia, si sistemò un po' i capelli e si avviò con quel gentile signore verso il bar più vicino.
<>
<>
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<< Dove abita?>>
<< A Roccaverde>>.
<< Come va? Tutto a posto? Voglio dire la gamba le fa male?>>
<< Sì, tutto a posto grazie>>.
Entrarono in un bar e il caldo che li accolse diede a Gianna una bella sensazione di benessere. Si sedettero e Giacomo ordinò le cioccolate.
<< Ha pensato che sono pazza?>>
<< No, ho pensato che forse aveva bisogno d'aiuto>>.
Le salirono le lacrime che cercò di trattenere, mentre Giacomo le porgeva un fazzoletto.
<< L' ha lasciata?>>
Il pianto spinse un po' di più. << Un figlio ci ha fatto con quell'altra! Me l' ha tenuto nascosto, il verme! E poi viene a dirmi che mi ama, che è stata solo un'avventura, che non è niente... un figlio non è niente? Da me non lo ha voluto e poi l' ha fatto con una qualsiasi... Ma la pillola che l' hanno inventata a fare? Ora se lo tenga il campione, il padre dell'anno!>>
<< Mi spiace!>>
<>.
<< E per ogni lacrima che sta versando>>.
<>
<< E' questo lo spirito giusto, ma attenta però, se lo ammazza finisce in galera...!>>
Gianna sorrise. << E' quello che si merita, e anche io, perché amo uno così>>.
Giacomo sorrise. << E' molto bella quando sorride. Pensi a se stessa, le passerà, si fidi di me, vedrà che un uomo che la merita lo incontrerà. Ora devo salutarla Gianna, devo andare a prendere mia figlia da scuola, l'accompagno a casa?>>
<< No, no grazie, lei è stato fin troppo gentile. Vada pure, ho la macchina nel parcheggio>>.
<< Bene, vada a casa e si faccia una bella dormita, vedrà che domani le cose le appariranno in una luce migliore. Il tempo cura le ferite del cuore, è certo. Addio, Gianna>>.
<< Grazie, grazie mille. Addio Giacomo>>.
Gianna seguì il consiglio di quel gentile signore, tornata a casa spense il cellulare, non voleva sentirlo suonare, non volle correre il rischio che se Roi la chiamava gli sarebbe corsa tra le braccia; era arrabbiata, ma lo amava ancora. L’amore non finisce all'improvviso, ci si innamora all'improvviso, ma non si smette con altrettanta velocità. Voleva farla finita, quella relazione l'aveva fatta soffrire troppo.
Fece una doccia, prese una pastiglia di valeriana e andò a dormire. Il sonno di quella notte non fu dei migliori, ma riuscì a farsi qualche ora di sonno profondo. Al risveglio era ancora molto depressa; si obbligò a reagire, si guardò allo specchio e vide due occhi gonfi come patate. Si fece degli impacchi di acqua fredda, ma il pianto ogni tanto tornava a sorprenderla. A mezzogiorno si preparò un toast e riaccese il cellulare. Trovò quattro avvisi di chiamata di Roi. Resistette alla voglia di chiamarlo, ma dopo un po' chiamò lui.
Gianna rispose, prima o poi dove avere un confronto: << Sì...>>
<>
<< Perché?>>
<< Come perché!? Mi sono preoccupato, voglio averti, ti amo, perdonami...>>
<< Anch'io ti amo, ma è finita>>.
<< No tesoro, che dici! Parliamone ti prego! Lei non è niente!>>
<< Lei chi? La madre o la figlia?>>
<< Dai, ti prego! Ho sbagliato, lo so, ma io amo te>>.
<< Mi hai tenuta nascosta questa storia per un anno. Vada per l'avventura, ma un figlio non sparisce nei ricordi col passato. Mi ricordo quando hai riso di me quando ti dissi che volevo darti io un figlio... meno male che non l' ho fatto!>>
<< Ero confuso, avevo paura di perderti, credimi!>>
<< E per quanto tempo pensavi di tenermelo nascosto?>>
<< Non lo so. Ma ora si può rimediare, non ho più niente da nascondere, credimi sarò sincero>>.
<< Il punto è che non riesco più a crederti, ad avere fiducia. In futuro sei sicuro che non mi diresti più una bugia o che non ne combinerai un'altra, o chissà cosa?»
<< Sto bene grazie>>. Si ripulì il viso alla meglio e alzò lo sguardo, verso quel signore sulla cinquantina d'aspetto gradevole.
Alle sue parole l'uomo sgranò un po' gli occhi. << L' ho vista agitarsi e poi immobilizzarsi di colpo, non volevo disturbare>>.
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<< Sì, amore e stupidità>>.
<< Ahi! Direi che è grave! Una cioccolata calda può lenire i sintomi? Si deve scaldare un po' o si ammalerà anche nel corpo>>.
<< Sì, ha ragione, grazie>>.
L'uomo l'aiutò ad alzarsi, le faceva un po' male il ginocchio per la caduta, si scrollò alla meglio dalla sabbia, si sistemò un po' i capelli e si avviò con quel gentile signore verso il bar più vicino.
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<< Dove abita?>>
<< A Roccaverde>>.
<< Come va? Tutto a posto? Voglio dire la gamba le fa male?>>
<< Sì, tutto a posto grazie>>.
Entrarono in un bar e il caldo che li accolse diede a Gianna una bella sensazione di benessere. Si sedettero e Giacomo ordinò le cioccolate.
<< Ha pensato che sono pazza?>>
<< No, ho pensato che forse aveva bisogno d'aiuto>>.
Le salirono le lacrime che cercò di trattenere, mentre Giacomo le porgeva un fazzoletto.
<< L' ha lasciata?>>
Il pianto spinse un po' di più. << Un figlio ci ha fatto con quell'altra! Me l' ha tenuto nascosto, il verme! E poi viene a dirmi che mi ama, che è stata solo un'avventura, che non è niente... un figlio non è niente? Da me non lo ha voluto e poi l' ha fatto con una qualsiasi... Ma la pillola che l' hanno inventata a fare? Ora se lo tenga il campione, il padre dell'anno!>>
<< Mi spiace!>>
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<< E per ogni lacrima che sta versando>>.
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<< E' questo lo spirito giusto, ma attenta però, se lo ammazza finisce in galera...!>>
Gianna sorrise. << E' quello che si merita, e anche io, perché amo uno così>>.
Giacomo sorrise. << E' molto bella quando sorride. Pensi a se stessa, le passerà, si fidi di me, vedrà che un uomo che la merita lo incontrerà. Ora devo salutarla Gianna, devo andare a prendere mia figlia da scuola, l'accompagno a casa?>>
<< No, no grazie, lei è stato fin troppo gentile. Vada pure, ho la macchina nel parcheggio>>.
<< Bene, vada a casa e si faccia una bella dormita, vedrà che domani le cose le appariranno in una luce migliore. Il tempo cura le ferite del cuore, è certo. Addio, Gianna>>.
<< Grazie, grazie mille. Addio Giacomo>>.
Gianna seguì il consiglio di quel gentile signore, tornata a casa spense il cellulare, non voleva sentirlo suonare, non volle correre il rischio che se Roi la chiamava gli sarebbe corsa tra le braccia; era arrabbiata, ma lo amava ancora. L’amore non finisce all'improvviso, ci si innamora all'improvviso, ma non si smette con altrettanta velocità. Voleva farla finita, quella relazione l'aveva fatta soffrire troppo.
Fece una doccia, prese una pastiglia di valeriana e andò a dormire. Il sonno di quella notte non fu dei migliori, ma riuscì a farsi qualche ora di sonno profondo. Al risveglio era ancora molto depressa; si obbligò a reagire, si guardò allo specchio e vide due occhi gonfi come patate. Si fece degli impacchi di acqua fredda, ma il pianto ogni tanto tornava a sorprenderla. A mezzogiorno si preparò un toast e riaccese il cellulare. Trovò quattro avvisi di chiamata di Roi. Resistette alla voglia di chiamarlo, ma dopo un po' chiamò lui.
Gianna rispose, prima o poi dove avere un confronto: << Sì...>>
<
<< Perché?>>
<< Come perché!? Mi sono preoccupato, voglio averti, ti amo, perdonami...>>
<< Anch'io ti amo, ma è finita>>.
<< No tesoro, che dici! Parliamone ti prego! Lei non è niente!>>
<< Lei chi? La madre o la figlia?>>
<< Dai, ti prego! Ho sbagliato, lo so, ma io amo te>>.
<< Mi hai tenuta nascosta questa storia per un anno. Vada per l'avventura, ma un figlio non sparisce nei ricordi col passato. Mi ricordo quando hai riso di me quando ti dissi che volevo darti io un figlio... meno male che non l' ho fatto!>>
<< Ero confuso, avevo paura di perderti, credimi!>>
<< E per quanto tempo pensavi di tenermelo nascosto?>>
<< Non lo so. Ma ora si può rimediare, non ho più niente da nascondere, credimi sarò sincero>>.
<< Il punto è che non riesco più a crederti, ad avere fiducia. In futuro sei sicuro che non mi diresti più una bugia o che non ne combinerai un'altra, o chissà cosa?»
Roi tacque.
«Sei un bugiardo,
sei inaffidabile, io non voglio vivere nel dubbio. Non voglio. Non cercarmi
più».
<< Ti prego amore, dammi un'altra possibilità. Non piangere.>>.
<< Piango quanto voglio. Va’ dal tuo bambino, assumi le tue responsabilità, solo così potrò perdonarti. Addio Roi>>.
<< Ti prego amore, dammi un'altra possibilità. Non piangere.>>.
<< Piango quanto voglio. Va’ dal tuo bambino, assumi le tue responsabilità, solo così potrò perdonarti. Addio Roi>>.
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