DIARIO
DI UNA RAGAZZA DEL SUD DI MIRIAM BALLERINI E LINA PICCIONE
Un
disegno verista della condizione femminile “dal tramonto all’alba” dei tempi
“Diario di una ragazza del sud” è un disegno
realistico ed attento che l’ autrice, Miriam Ballerini schizza su di una terra
di vita, molto sentita, che si ricollega al meridionalismo ancestralizzato.
Oggi questa terra deve essere forte più che mai, perché i fiumi di profughi
invadono l’Europa leggiadra. Lo sradicamento e l’impianto in altre terre può
darsi che sia traumatico e che le piante ne soffrano, ma a volte, invece, è
proprio un’ancora di salvezza. È il caso della protagonista di questo diario,
Maria Sole, che nell’emigrazione ha trovato la liberazione. Maria Sole è una di
quelle tante «donne a cui sono state tarpate le ali che hanno tanto lottato e
che ancora lottano per la libertà». Così recita la dedicazione dell’ autrice.
Non a caso tra le prime battute il diario inizia proprio attraverso l’immagine
del tramonto e della sera. L’occaso del sole è l’occasione che richiama a Sole.
«Maria Sole uscì dal ristorante e si fermò un momento in cima ai tre gradini.
Certo, i tramonti hanno la capacità di riempirti l’anima, ma forse sono le albe
quelle che rimangono impigliate nei pensieri». E ci ricorda Foscolo: «Forse
perché della fatal quiete/ Tu sei l’immago a me sì cara vieni/ O Sera!»: la
sera ci conduce al Nulla Eterno ed aspetta la sua alba di resurrezione. E ci
ricorda con parole di verismo, molto simili a quelle del diario balleriniano,
il Verga sconsolato: «La sera, appena
cade il sole, si affacciano all’uscio uomini arsi dal sole, sotto il cappellame
di paglia e colle larghe mutande di tela, sbadigliando e ritirandosi le
braccia, e donne seminude, colle spalle nere, allattando i bambini già pallidi
e disfatti». O con le parole di Salvatore Di Giacomo: «La padrona preparava i
lumi. Un grande silenzio s’era fatto per le vie. La dolcezza del tramonto
penetrava l’anima …». Maria Sole vive il dramma di essere donna. C’è una figura
storica che si staglia tra le pagine di vita, quella del padre e padrone.
Essere donna significa “essere inferiore”. In ciò riassumiamo il “complesso di
inferiorità”. D’altronde Freud e Lacan, galantuomini e perbenisti, avevano
visto nella donna un “uomo castrato”, o una “Lupa” verghiana. Non avevano fatto
altro che perpetrare ancora quella cultura millenaria della “Fallo”. Nel 1600
la donna non aveva il diritto neppure di godere del coito del matrimonio. È
rimasta famosa la “camicia giansenista”, una camicia accollata e lunga fino ai
piedi: aveva un foro soltanto nella parte corrispondente alla vagina e niente
più! La morale giansenista era severissima e frenò quella evoluzione che già si
era avuta col Rinascimento. Essa ha avuto un influsso fino ai nostri giorni,
almeno fino alla Seconda Guerra Mondiale. In Sicilia, fino a pochi decenni fa,
si poteva ancora trovare ricamata sulle lenzuola, o all’angolo di un cuscino,
la frase: «Non per il piacer mio, ma per dare un figlio a Dio!». È questo il
profondo senso di questo sentito diario di vita, ben desumibile da alcune
battute: «Mi guardo intorno e vedo che, anche se i tempi sono cambiati, c’è
ancora chi soffre per mano di un uomo che non sa riconoscere nella donna un suo
pari. Ecco perché ho voluto raccontare la mia storia». E l’auspicio che la
buona letteratura vuole affidarci è proprio un motto di E. Vedder, riportato
sempre nella dedicazione del bellissimo libro di Ballerini: non importa quanto
freddo sia l’inverno, dopo c’è sempre primavera. Questo motto riprende il senso
di quell’alba di resurrezione che si aspetta dopo il tramonto “Alla Sera”.
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