Grazie a Filomena Gagliardi per la sua recensione al mio Progetto
“O forse siamo girasoli mancati,/ coi petali a coprirci lo sguardo, che rasental'imperfetto del suolo,/ anziché spingersi/ in alto, a guardia del tuo sguardo?” – Miriam Ballerini
Quando un libro di poesie mi piace particolarmente ho l’abitudine di leggerlo due volte: la prima volta dall’inizio alla fine, la seconda volta a ritroso.
Visto che Progetto di Miriam Ballerini mi è piaciuto davvero tanto, ho applicato il predetto metodo.
In tal modo ho potuto leggere la poesia che apre la raccolta prima all’inizio e poi alla fine: questo iter si è rivelato particolarmente calzante nel caso della silloge di cui sto scrivendo. Infatti la lirica incipitaria si chiama Progetto: essa, per ammissione della stessa autrice, dà nome all’intero volume. Si tratta pertanto di un testo programmatico, adatto sia per iniziare che per concludere un’opera letteraria. Progetto deriva dal latino proiectum, da proicio, io getto avanti: il progetto è ciò che io scorgo davanti a me della mia idea; anche andando a ritroso, esso spicca sempre su tutti.
L’omonimo componimento contiene un dialogo ideale in cui la poetessa interroga Dio, chiedendogli se il mondo da lui creato, ovvero realizzato, corrisponde al suo progetto, ovvero al mondo ideato nella sua mente. Il progetto di Dio si è compiuto?
Il titolo fa riferimento dunque a un Progetto inteso come una potenzialità, un dubbio, una possibilità, non destinata necessariamente ad attuarsi come era nelle intenzioni. Il progetto è in potenza, quindi è imperfezione.
Ballerini parte da tale presupposto per commentare, attraverso la sua poesia, l’esito del progetto divino. La poetessa, però, non si pone su un piedistallo; semplicemente osserva l’umanità, la società, la Natura e ne denuncia il male, ovvero le loro incongruità rispetto al paradigma iniziale. L’imperfezione non è essa stessa il male; il male è invece tutto ciò che dipende dall’uomo per negligenza.
L’autrice in prefazione scrive che la poesia non è propriamente il suo genere, in quanto prevalentemente scrive in prosa. Tuttavia in queste liriche non ha fatto altro che mutuare dalla “narrativa sociale” a cui solitamente si dedica, “l’attenzione” per le “storie degli ultimi” o per le “manifestazioni della natura”.
Leggendo tali considerazioni iniziali, ma anche le poesie, non ho potuto non ritrovare i toni tipici, da un lato, della poesia elegiaca di Solone, dall’altro della poesia di invettiva di Giovenale. Due autori diversi, uno all’inizio della grecità, l’altro nella fase imperiale della romanità, ma entrambi alle prese con la crisi morale dell’uomo: un tema sempre verde, purtroppo.
Soprattutto mi tornano in mente i punti in cui Giovenale afferma che, se anche un poeta non avesse le competenze espressive, basterebbe l’indignazione per fare poesia: “si natura negat, facit indignatio versum”. Si tratta ovviamente di un topos da non prendere alla lettera: l’indignatio è di per sé un tono letterario codificato, ricercato, ispirato. C’è un’eleganza anche nella disapprovazione. Analogamente anche la nostra Miriam si sdegna con stile.
Ad esempio, un tema molto forte all’interno del libello, quello dei migranti, viene trattato sempre in modo mai banale: “Si partiva col fiato nebbioso/ che sfuggiva in un sospiro./ Gli scarponi che affondavano/ nella neve compatta, aspra;/ con un ultimo sguardo intorno./ Col disgelo, nemmeno l’impronta/ restava del nostro avviso”. Si nota in questo testo il passaggio dalla forma impersonale alla terza persona; in quest’ultimo caso i soggetti sono sempre delle cose (scarponi, impronta) ad indicare concretamente cosa siano e chi siano gli Emigranti del titolo.
Analogamente è forte la metafora per designare l’umanità, come nella lirica dal titolo Uomini di fango che evoca tra l’altro il fango in cui affonda lo stivale dei maiali di Battiato: “Abitano il mio quotidiano. Rivestiti di perbenismo/ e spogli di comprensione./ Ghigliottinano,/ carnefici della pietà./ Xenofobi in una terra/ di fratelli nati/ da molteplici placente./ Uomini coperti di fango, circondano il mio vivere./ Appannati,/ schiavi in catene d’odio. Moriranno vergini, sconoscendo l’amplesso/ della vita”. Ricorrenti in questi versi risultano gli accumuli, insistente la punteggiatura che scandisce le varie operazioni fino ad arrivare ai loro responsabili, gli uomini pieni di fango.
Presa da un consistente senso di giustizia l’autrice consiglia così: “Sii leone quando difendi/ gazzella quando accogli” con uso icastico della metafora (lirica Battiti).
La scrittrice però dispensa anche consigli di sana leggerezza: “Ma certo! Ridi! […]/ Ridi di te stesso/ e delle cose serie […] Ridi con gli altri, non degli altri […]/ Ridi, allora ridi,/ senza pudore e vergogna” (lirica Ridi).
L’autrice del resto ha il suo rifugio di benessere nella natura: “Salgo la collina/puntando alla solitudine [… ]/ La natura non è mai vile” (lirica Eremita); anzi essa spesso diventa il luogo della ricreazione attraverso la scrittura: “La campagna, casa mia […]./ Qui vivo, rido, soffro./ E penso…/ Proprio dietro all’esiguità/ di un filo d’erba/ ritrovo il senso della vita./ Il coraggio del mio scrivere,/ nel difendere il debole” (lirica Come uno stelo).
Consiglio a tutti di leggere queste poesie inserite in un libretto grazioso anche nell’immagine di copertina, che rappresenta il punto di vista puro di chi si trova immerso nella natura, tra cielo e acqua, tra montagne e sentieri, in un angolo di paradiso.
Ad maiora semper
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