venerdì 14 agosto 2020

Recensione di Come impronte nella neve a cura di Stefano Pioli

 Grazie a Oubliette magazine:

“Come impronte nella neve” di Miriam Ballerini: quando la catarsi non c’è, anche i lupi ballano…

Sono un po’ combattuto nel coltivare queste righe di reazione al libro, e forse so perché, ma ignoro se riuscirò a spiegarlo, soprattutto a me stesso.

Come impronte nella neve di Miriam Ballerini
Come impronte nella neve di Miriam Ballerini

Ogni tanto, in questo giardino di parole ed essenze, spunta una frase saggia e sorprendente, che dice cose semplici, ma arcane, e che t’impongono di fermarti per un po’ a riflettere. Basta davvero un battito d’ali di rondine, per mutare in modo irreversibile la nostra vita?

È il libro di Miriam come la vita stessa di Zeljka, molto ben scritto, ma privo di pathos? No, è sì ben scritto, ma ricco di pathos. Dove vuole condurmi? Miriam è come la vita, ci accompagna dove decide lei. Ma noi dove vorremmo trascinare la nostra stanca pellaccia?

Però lei non ride mai alle nostre spalle, come fa invece la vita, anche perché è ben conscia che solo qui, mentre scrive, la sua mano sarà vincente.

Zeljka ha avuto un brutto incidente, è diventata zoppa, e ora vive cercando di fungere da bastone per chi ne ha bisogno, ad esempio Claudia, una sedicenne a rischio droga, che le è stata affidata.

Le orme del vissuto, pensa Zeljka, sono i segni che noi lasciamo, che prima o poi cessano di rappresentare qualcosa, confondendosi in quel disordine a intermittenza che è la nostra coscienza.

È un inno all’amore a cui il lettore è invitato a partecipare. C’è però un modo per evitare quel canto, e non costa nulla, basta smettere di leggere e fare altro. Io però non ci riesco e quindi andrò avanti a sentire la sua e a dire la mia.

È un amore universale, non riferito a qualcuno in particolare, né ai soli umani, ma anche a quelle creature che solo le bestie credono siano prive di anima, anche se li chiamano animali, e solo quei miseri che l’anima l’hanno seppellita con delle immondizie repellenti non riescono ad accettarlo.

Questo discorso vale per gli umani, gli equini, i pitoni, i varani, i ragni amazzonici, i procioni, i cani, le timide pecore, i daini pomellati, i corvi, le colombe, i grilli, i fuggevoli orbetti… tutti esseri con l’anima!

Anche per le piante, i girasoli, le robinie, i radicchi le cicorie e quegli arcani fiori di cui non rammento mai il nome… ce l’hanno anche loro l’anima!

Zeljka si sente, dice, come quei campi gialli, finalmente in grado di svolazzare, dove ancora non sa di preciso, ma uno scopo ora per fortuna c’è: essere capace di farlo.

E l’anima ce l’hanno anche le cose apparentemente inanimate, come le nuvole. Zeljka dice che un cielo senza nubi è come un neonato non ancora vissuto. A volte un aereo disegna dei rombi che lei definisce effimeri e che sono perciò più preziosi. E a volte il vento e la pioggia trascinano via le foglie secche dell’autunno… che esseri dispettosi!

Che non sia tutto rosa e fiori, lo si vede alla sera, quando il tramonto si volge, sempre agli occhi di lei, famelico verso il cielo ed è pronto a papparselo; a volte invece il sole, caloroso come un amico durante il giorno, nel suo mesto calare ama truccare di rosso le guance del cielo.

Zeljka si sente sola, ma non ne soffre tanto, forse un po’ più in quei giorni in cui gli altri festeggiano insieme ai propri amori. Non avendone uno, lei, fresca reduce da un rapporto terribile con un partner crudele, per fortuna, solo con le parole, raramente con gli atti, lei si sente irrimediabilmente sola.

Ma ora per fortuna ora ha trovato una tana!, così lei la chiama, in cui coabita con dei consimili, dei tipi come lei, empatici, sorridenti, amorevoli. E non si sente poi così sola, ora.

A fatica imbastisce un buon rapporto con Claudia, che finalmente trova chi la sa osservare con attenzione, senza prevaricare, che domanda, quasi esige a volte, ma che non s’impone mai come farebbe un capo: Zeljka è una responsabile che sa responsabilizzare chi non ne vuole sapere di obblighi, ma che alla fine li accetta perché scopre che le conviene farlo.

Ogni tanto, quest’allegra compagnia abbozza sorrisi, sghignazza, fa la voce di Ollio, scimmiotta vecchie pubblicità, spara battute un po’ peregrine, però simpatiche, piange, si emoziona, bacia, scappa, sogna, dice bugie, lo ammette, commette casini, si pente, si arrabbia, ma non troppo, ascolta, urla, dice la sua, soprattutto ride a crepapelle e qualche volta lacrima, a volte trattenendo le gocce che lottano per uscire, a volte miracolosamente no, lasciandole libere di scorrere, ma a denti stretti.

Anche il cielo erutta talvolta in qualcosa di eclatante, e il tuono, talvolta, secondo Zeljka, straccia il silenzio, e il temporale minaccioso riesce a disegnare dei tatuaggi nel cielo.

Zeljka fa innamorare Jacopo, quando questi si accorge che lei sa amare veramente… amare chi?… anche chi non è come lei, due puttane dell’est per esempio, che sente esserle simili. Difficile da capire?

Come capita a quel Leopoldo, con cui passa un’intera notte insonne, e che occorre leggere il libro per scoprire chi è.

La tana è illuminata, non solo dai dardi celesti del temporale, ma anche da tale amore che Zeljka diffonde in ogni rivo strozzato (specie quelli che gorgogliano).

La favola non sarebbe tale, se ogni tanto non comparisse sulla scena il cattivo: Christian, il marito, che sente di nuovo il desiderio di lei, quando s’avvede che lei sa vivere ed essere serena senza di lui. Raramente ho visto descrivere un personaggio con tinte più negative di ‘sto pessimo elemento.

Egli l’ha lasciata appena dopo l’incidente, non volendo più convivere con una storpia, e non senza spiattellarle in faccia quest’orrida considerazione. Lui, le dice, non ce l’avrebbe fatta a desiderare di vivere con un simile handicap. Anche questo gliel’ha gettato in faccia, senza ritegno.

Christian gode della propria malvagità, affetto da una specie di sadismo compulsivo e dall’ambigua origine psichica. Sempre ha trattato la moglie come un essere inferiore, una bestiolina, destinata per natura a subire le sue legittime intemperanze.

Non esita a entrare nella tana, per farle firmare le carte di divisione, ma subito dopo s’ingelosisce per la presenza di alcuni uomini, e la chiama in vari modi, anche troia, pazzo di un sentimento informe che è impossibile da catalogare.

I suoi tentativi di penetrare in quel sereno anfratto, fisicamente o telefonando, o via email, sono parecchi, e ogni volta sordidi, bestiali, nel senso più vigliacco del termine. Di questo personaggio ci sarà da parlare alla fine.

Claudia è giovane, già esperienzata, e al contempo inespertamentre Zeljka ha vissuto di più, ma senza capire troppo dalla vita, se non questo: che bisogna cercare di capire il prossimo, dal greco kaptein, latino capere, comprendere, entrare, penetrare. In inglese si dice anche dig, scavare. E nella tana, tutti, ma soprattutto Zeljka e Claudia sviluppano la capacità, molto femminile, di capire.

Fra le due donne ci sono scambi, a volte aspre schermaglie. Claudia la chiama matusaflippatasciroccata, le dice che è fuori come un balcone. A Reggio dicono: t’ē şò cme ‘l metano, oppure: t’ē mât cme ‘na strêda: giù come il metano, matto come una strada. Ma lo si dice a qualcuno a cui in fondo si tiene. Zeljka la chiama marmocchia. E che le due si vogliono bene se lo comunicano spesso, senza ritegno.

Jacopo è sempre più innamorato di quest’essere così grazioso e, pur claudicante, così splendido nel suo amore per tutto quel che… si muove, anche appena appena! Probabilmente nemmeno ci bada più, il ragazzo, che lei zoppica, solo il lettore e Zeljka ce l’hanno sempre presente, come il suo problema maggiore. Anche Christian lo tiene ogni volta a mente, quando lo vuole utilizzare come un motivo d’offesa.

Zeljka ripensa ogni tanto agli anni bui passati con il suo ex. Le lacrime le offuscavano la vista e lei le asciugava talvolta, dice, col canovaccio.

Miriam Ballerini
Miriam Ballerini

Il libro è in terza persona e le cose che io dico che è Zeljka a pensarle sono dell’autrice, ma non ne sono certo, perché sento che la prima è un’ipostasi della seconda. A tal riguardo, ho pochi dubbi, un paio al massimo, o forse tre.

Dice anche che certa gente è come una fionda, e spara a casaccia tutto il male che sente dentro di sé, poiché il suo scopo è colpire e nulla più.

La tana si sta trasformando, a un certo punto, in un fortino, vittima di frequenti assedi. Ma di tutti questi cattivi invasori ne parlerò alla fine.

Morale della favola: c’è gente che non sa parlare, e ha voce solo per le offese; ma c’è chi sa amare e che non vuole far violenza all’amato bene, e che sa utilizzare anche il dolore, trasformandolo in poesia. Sono tutti concetti nati nella mente sofferente e quasi felice di Zeljka.

Ogni nostro atto ci conduce da qualche parte, l’importante è avere il coraggio di compierlo, nella piena consapevolezza. Seguire la propria mistica geodetica, il tragitto più breve fra due punti, appare il compito esistenziale.

Il miracolo, quando nevica, è che un fiocco si deposita solo quando i suoi fratelli gemelli lo accompagnano in massa. È dall’unione, non dalla separazione, che si crea un organismo nuovo, che nella storia si chiamerà, Lorenza, figlia della nuova coppia di innamorati.

E ora parliamo dei lupi, che di solito viaggiano in torme. Qui no. Ne ho contati appena otto.

Due sono i genitori di Zeljka, che non hanno saputo reagire alla morte di Valentino, il figlio prediletto, dimenticandosi dell’esistenza dell’altra, peggio, dimenticandosi quasi di lei, e contribuendo alla sua malinconica infelicità.

Ci sono i genitori di Claudia, incapaci di seguire la pur amata figlia. Zeljka viene attaccata quando i due si accorgono che ora la loro piccola è cresciuta al punto di decidere autonomamente la sua strada, e non quella che loro le volevano imporre.

C’è la mamma di Jacopo, maligna come poche, che non sopporta che il figlio frequenti questa tipa strana, zoppa e divorziata, che aiuta le donnacce, e usa ancora le mani contro il figlio trentenne: i due non sanno proprio rapportarsi. Lui fugge da lei, lei lo insegue e, per quel grande affetto che prova, lo maledice e lo scaccia da casa.

Ah, ora rammento, sono nove i predatori, in paese c’è un’altra fetida pettegola.

Poi ci sono i genitori di Christian, specie la mamma, talis mater talis flius, capaci come il loro consanguineo, prima di blandire Zeljka, per poi insultarla terribilmente, subito dopo.

In tali coppie di fameliche fiere è sempre la femmina che conduce il gioco. Il maschio appare ogni volta un dû ed còp in rifiût, un due di coppe in rifiuto, quando è briscola spade. È la donna che conduce il gioco macabro della prevaricazione. È lei che spesso cerca di dominare e violentare i figli, a indirizzarli sulla strada che ha deciso la coppia di genitori, cioè lei.

È una forma di brutalità muliebre, a cui è doveroso ribellarsi.

E infine c’è lui, quello che vorrei definire il lupo espiatorio, Christian, bastardo come pochi, che va per suonare e viene suonato, maledetto, sbattuto fuori a calci (moralmente e, se non l’avesse fatto con le sue gambe, anche fisicamente) dalla tana.

E ora ho realizzato cos’è che non mi convinceva della storia. Il demone che è in me si augurava un finale tragico, con Zeljka sacrificata in nome dell’esigenza della catarsi, com’è previsto in ogni tragedia che si rispetti.

Invece no: anche Christian, alla fine, si sp…, anzi, si risp… beh non voglio fare ulteriormente lo spoiler… Roba da matti! O da santi ingenui!

Alla lettura dell’ultimo capitolo, potrebbero cadere molte braccia (e qualche paio di occhiali). Ma ci pensa l’autrice, nel commiato al lettore, a rinsaldarle al corpo e a rimettere tutte le cose a posto, compresi le lenti ch’erano scivolate giù dal mio naso.

 

Written by Stefano Pioli